Tanti anni fa era arrivata al mio ufficio una cartolina raffigurante una moschea con il suo minareto: pur essendo solo una fotografia emanava una luce così ammaliante che mi emozionò. Proveniva da Samarcanda e giurai che prima o poi avrei raggiunto quell’angolo remoto.
E ce l’ho fatta: una notte di agosto finalmente scendo da un aereo nell’aria tiepida e asciutta di Tashkent.
La capitale è una città ariosa, con grandi viali, grandi parchi, un enorme mercato pulito e ordinato, ricco di frutta e ortaggi lussurreggianti e profumati e dove comincio a familiarizzare con i visi rotondi, gli occhi leggermente a mandorla e la stupefacente dolcezza di questa gente, nata da innumerevoli mescolanze e compenetrazioni.
Poco dopo arriva Samarcanda, “un nome che canta” come scrisse Terzani. Nella piazza del Registan ho pianto e non me ne vergogno. Sarà pure molto rimaneggiata, ma l’oro e l’azzurro sfolgorante delle cupole, la maestosità e l’armonia delle proporzioni mi fanno vibrare. Dal Registan lungo corsi maestosi e fioriti si arriva a Shar-i-Zindah, il monumentale viale di tombe le cui piastrelle colorate riempiono gli occhi di luce in un crescendo di bellezza, su fino alla cima della collina da cui si domina il fantastico viale. A Samarcanda senti il grande respiro dell’Asia, il silenzio immoto delle steppe infinite rotto soltanto dal rimbombo ovattato degli zoccoli dei cavalli sull’erba. Tra gli alberi ed i fiori dei parchi filtrano raggi di luce che vanno a riflettersi nelle fontane: guardo i colori e ascolto il continuo gorgoglio dell’acqua che rinfresca solo a sentirlo, come nelle Mille e una Notte.